San Marco Evangelista
Il 31 gennaio dell’anno 828 le reliquie di San Marco, vennero traslate a Venezia da Alessandria d’Egitto ed accolte dal Doge Giustiniano Particiaco.
San Marco diverrà patrono della città, simbolo di essa in forma di leone alato armato di libro, aperto in tempo di pace sulla frase Pax Tibi Marce Evangelista Meus, Pace a Te o Marco Mio Evangelista, minacciosamente impugnante una spada in tempo di guerra.
La vita
Conosciamo qualcosa della vita dell’evangelista Marco grazie ad alcuni testi del Nuovo Testamento e alle testimonianze degli antichi scrittori ecclesiastici. Per colmare quanto manca a questi testi ci sono fonti posteriori sia di ambito egiziano, sia di ambito occidentale, in particolare modo veneto-aquileiese. Queste fonti riferiscono dell’apostolato che, secondo la tradizione, avrebbe svolto in Egitto e nelle Venezie.
In ambiente biblico Marco appare per la prima volta in Atti 12,12, laddove si racconta che l’apostolo Pietro, trovatosi libero dal carcere, si diresse alla casa di Maria, madre di Giovanni soprannominato Marco, dove parecchi cristiani radunati stavano pregando. Marco si presenta con doppio nome: Giovanni, di tradizione ebraica, e Marco, di antichissima tradizione romana riportabile a Marte, il dio della guerra; un fenomeno di binomia non raro nella civiltà ellenistica. Egli è ritenuto l’autore del secondo vangelo, il più breve dei quattro, composto di soli sedici capitoli. In questo vangelo, laddove si parla dell’arresto di Gesù, si trova all’improvviso, senza logici collegamenti con l’insieme narrativo, l’episodio di un giovinetto che a differenza degli altri discepoli di Gesù, fuggiti via, seguiva il Maestro. Egli era ravvolto in un lenzuolo sul corpo nudo. Quelli che erano lì per arrestare Gesù cercarono di fermarlo per liberarsi dell’incomodo testimone. Ma costui, abbandonando il lenzuolo, fuggì via nudo (Mc 14, 51-52).
Molti commentatori hanno ritenuto che l’episodio abbia un sapore autobiografico, onde nel giovinetto si ravviserebbe Marco stesso. In effetti, se dal resto degli Atti, dove si parla di Marco, egli risulta di agiata condizione, l’episodio del vangelo confermerebbe questo dato, giacché poter disporre di un lenzuolo, onde avvolgersi nella notte, era riservato ai ricchi.
Poiché siffatto brano evangelico non fa il nome di Marco, la prima testimonianza sicura su di lui ci è data dal testo citato degli Atti. Da esso conosciamo anche Maria, la madre di Marco.
In pratica egli ci appare orfano e unico figlio di madre vedova. Per colmare il vuoto biografico, lasciato dal testo degli Atti, bisognava costruire una regolare biografia, con un padre, un luogo di nascita, e altri episodi della giovinezza. Questo lavoro è stato compiuto, ad esempio, dai biografi copto-egiziani del IX secolo.
La giovinezza
Marco sarebbe nato a Chairouan, l’odierna Cirene capitale della Cirenaica, nella Libia attuale. Suo padre Paolo, nato ad Asut, una località del basso corso del Nilo, apparteneva a una ricca famiglia contadina, ed era cugino dell’inno-minata moglie dell’apostolo Pietro. Maria, moglie di Paolo, era una donna colta, discendente della stirpe sacerdotale di Aronne e ritenuta santa nella Chiesa orientale. La discreta agiatezza economica permise a Marco lo studio dell’ebraico, greco e latino, approfondendo la conoscenza della sacra Scrittura e in particolare i testi dei profeti.
Probabilmente Giovanni Marco era nato all’inizio dell’era volgare, sotto l’impero di Augusto. Prima della morte di costui, la Cirenaica fu invasa da tribù barbare, che depredarono terre e beni della famiglia di Marco, onde, costretto alla fuga con i genitori, si rifugiò a Gerusalemme.
Lì acquistarono un podere, attraversato dal torrente Cedron, alla periferia della città. In questo luogo Gesù si ritirò nella notte dell’agonia e proprio nella vicina casa di Maria e Marco il Maestro avrebbe celebrato l’ultima cena. Prima che il Divino Maestro iniziasse la vita pubblica, era morto Paolo, il padre di Marco. E questi ebbe presto l’occasione d’incontrarsi con Gesù stesso e di diventarne discepolo. Le ricordate fonti copte precisano che Marco sarebbe stato presente al primo miracolo del Salvatore a Cana di Galilea.
Un’altra tradizione egiziana, anteriore di quattro secoli a quella copta, è riferita da sant’Epifanio, morto nel 403. Egli afferma che Marco faceva parte dei settantadue discepoli di Gesù, occupando nella serie il cinquantottesimo posto.
Ma quando Gesù a Cafarnao (Gv 6,66) suscitò meraviglia e scandalo per aver affermato che bisognava mangiare la sua carne e bere il suo sangue per ottenere la vita, tanto da spingere molti discepoli ad abbandonarlo, tra questi ci fu anche Marco. Soltanto dopo l’ascensione di Gesù al cielo egli sarebbe ritornato tra i discepoli del Maestro, in seguito all’opera persuasiva dell’apostolo Pietro, suo parente per via paterna.
L’apostolo Pietro lo avrebbe battezzato, secondo quanto affermano alcuni interpreti del noto testo della prima lettera di Pietro, laddove da Roma, nei saluti ai fedeli, aggiunge anche quelli di Marco, «figlio mio» (1Pt 5,13), benché odierni esegeti della lettera la ritengano non autografa di Pietro bensì composta da suoi seguaci in Asia Minore verso il 100. Comunque sia, si sarebbe trattato di figliolanza spirituale contratta con il battesimo. Le fonti egiziane invece raccontano il battesimo di Marco in modo diverso. Giunto adolescente a Gerusalemme con sua madre vedova, che si chiamava Anna, sarebbe stato presentato alla Vergine Maria. Ella a sua volta affidò Marco e la madre sua a Giovanni. Costui, dopo un’adeguata catechesi, battezzò ambedue: anzi nel momento del battesimo Gesù stesso sarebbe apparso al giovinetto in segno di benevolenza.
Nella circostanza, Anna avrebbe assunto il nome di Maria, in ossequio alla Vergine.
Da Gerusalemme ad Antiochia
Queste cose ovviamente non sono narrate nei testi neotestamentari. Gli Atti degli apostoli (12,25) si limitano a ricordare che Barnaba e Saulo, rientrando da Gerusalemme ad Antiochia, recarono con sé Giovanni soprannominato Marco. Nei primi mesi dell’anno 45 i due apostoli si erano recati a Gerusalemme con una buona somma di denaro, raccolta tra i cristiani della città, in soccorso dei fratelli colpiti da una grave carestia. È probabile che i due abbiano soggiornato nella casa di Maria madre di Marco, poiché Barnaba dal testo sacro risulta imparentato con lui, ora quale zio, ora cugino.
Barnaba era un ebreo convertito, originario dell’isola di Cipro mentre Saulo corrisponde all’apostolo Paolo, che Barnaba aveva scoperto a Tarso.
Antiochia, oggi Antakya nella Turchia sudoccidentale, sorge di fronte all’isola di Cipro. Allora godeva il prestigio di un grande centro commerciale ed era una capitale di divertimenti; divenne famosa per questi motivi nell’intero Medio Oriente, terza città dell’impero romano dopo Roma e Alessandria, capitale della provincia romana di Siria con circa trecentomila abitanti, e con una nutrita colonia ebraica di circa quarantacinquemila unità. Erano ebrei dediti al commercio di ogni genere, gioiellieri, artigiani e studiosi, stimati a motivo di antica fedeltà verso la dinastia dei Seleucidi, che aveva regnato sulla città. Nelle sue piazze e strade si incontravano folle cosmopolite, mercanti di seta provenienti dalla lontana Cina, schiavi giovani e adulti venduti per diversi servizi. Era la città dei giochi gladiatori, delle danze e dei cortei, in una confusa massa di ciarlatani, di strilloni da fiera, di buffoni, incantatori, stregoni, eroi da circo e palcoscenico come racconta in suadente stile Ernesto Renan, il noto biblista francese. Soprattutto Antiochia era celebre per i suoi boschetti sacri alla dea Dafne, adibiti a turpi piaceri. La comunità cristiana da parte sua reagiva a questa situazione ambientale con una carica di intensa spiritualità e dinamismo apostolico, ed era aperta all’evangelizzazione sia degli ebrei sia dei seguaci di qualsiasi altra religione. In effetti gli Atti (11,26) precisano che proprio qui per la prima volta i seguaci della severa morale predicata nel nome di Cristo, forse per dileggio, furono denominati cristiani. In questa comunità, durante un servizio liturgico, i suoi profeti e dottori, di cui i principali sono elencati dagli Atti (13,1), «si sentirono dire dallo Spirito Santo: Riservate per me Barnaba e Saulo perché li ho destinati ad una missione», cioè per andare a predicare tra i pagani (At 13,2-3). L’asciutto racconto degli Atti non precisa né l’anno né il mese. Si suppone fosse una tiepida sera di aprile del 46, quando furono imposte le mani sui due prescelti.
A Cipro
Continuano gli Atti (13,4): «Essi sotto la spinta dello Spirito Santo scesero a Seleucia e di là veleggiarono verso Cipro». I due apostoli, e Marco con loro, usciti da Antiochia si avviarono lungo la strada che si snodava per circa venticinque chilometri, sino a Seleucia di Pieria, a nove chilometri dalla foce dell’Oronte, il porto naturale di Antiochia.
Marco adempiva la funzione di aiutante, precisano gli Atti (13,5). Cipro fu scelta in quanto patria di Barnaba e come tappa per organizzare il primo viaggio apostolico, che porterà Paolo nel cuore dell’Asia Minore (la Turchia attua-le) e in successione, negli altri tre viaggi, nell’intero bacino del Mediterraneo. Il tragitto in nave da Seleucia a Cipro si compiva in ventiquattro ore. Lo sbarco, si suppone, avvenne a Salamina, il porto di Cipro, la città più popolosa e già antica capitale.
A Salamina sorgevano numerose sinagoghe dove si riunivano gli ebrei, emigrati a Cipro sin dall’età dei Maccabei per dedicarsi alla preferita attività del commercio.
Nelle sinagoghe della città i due missionari si diedero da fare per annunciare il vangelo (At 13,5), coadiuvati da Marco, forse catechista e battezzatore, forse cronista della spedizione.
Non sappiamo se essi abbiano predicato anche nelle altre città. Il testo degli Atti (13,6) si limita a raccontare che i tre, prima di giungere a Pafo, la capitale, attraversarono tutta l’isola, senza precisare se vi siano giunti seguendo la strada litoranea meridionale o abbiano visitato anche le altre città. Se si avviarono lungo la litoranea, dopo Salamina oltrepassarono Cizio e Amatho, famose per i templi di Afrodite, di Adone e di Ercole, nonché per i commerci dei cereali e del rame. Poco oltre si imbatterono in Curio.
Prima di toccare Arsinoe, si presentarono alla loro vista i ruderi di Paleopaphus o Pafo vecchia (oggi Kouklia), di origine fenicia, distrutta da un violento terremoto un quarantennio prima. Era crollato anche il tempio della dea Pafia, o Cipria, nel cui nome gli abitanti invocavano Astarte, la fenicia dea lunare. Per i ciprioti ella nacque misteriosamente dalle spume del mare e, poggiando su una conchiglia, sospinta dalle brezze era approdata a Paleopafo. Essa fu chiamata «dalla spuma» (afror) «emersa» (dite), onde Afrodite. E le fu eretto un santuario, che rese Pafo vecchia tra le città sante dell’antichità. Ad esso accorrevano folle di pellegrini dall’intero bacino del Mediterraneo per venerare l’immagine della dea. Ad essa erano richieste la fecondità delle famiglie, la fertilità delle greggi e del suolo e la maternità per le donne sterili. Al tempo dei nostri missionari il culto era ormai inquinato da turpitudini e disordini sessuali. Dopo il terremoto, il tempio di Afrodite era stato ricostruito in Pafo nuova, dove era stata trasferita l’immagine della dea.
A Pafo nuova avvenne lo scontro di Paolo con Bar-Jesus detto Elimas, un mago e falso profeta che era al seguito di Sergio Paolo, il proconsole romano di Cipro (At 13,6-12). Bar-Jesus si spacciava intermediario fra Dio e gli uomini, mezzo scienziato e mezzo indovino, forse seguace della setta ebraica degli esseni. Il proconsole Sergio Paolo lo teneva alla sua corte tra i favoriti assieme ad altri dotti e saggi. Avendo saputo che Barnaba e Saulo erano giunti nella capitale, volle conoscere il loro messaggio. Ed essi gli esposero il vangelo. Poco mancò che Paolo Sergio aderisse alla nuova dottrina. Ma Bar-Jesus timoroso di perdere il suo ascendente sul proconsole si oppose alla predicazione dei due missionari. A questo punto Paolo lo affrontò con la sua tipica irruenza, rendendolo cieco da non vedere il sole.
Il proconsole atterrito dall’episodio, resosi conto della soprannaturalità della predicazione dei due, si convertì subito alla fede cristiana. E forse egli stesso consigliò ai tre di avviarsi a predicare il vangelo nel cuore dell’Asia Minore, nella regione di Antiochia di Pisidia, dove i suoi antenati avevano posseduto vasti terreni.
Verso l’Asia Minore
È probabile che nella primavera del 47 i tre missionari si siano imbarcati a Pafo nuova per la spedizione verso l’Asia Minore, dirigendosi verso Attalia, porto naturale della Panfilia nei pressi della foce del fiume Cestro. A detta di Strabone, il sommo geografo dell’antichità, esso era navigabile da imbarcazioni di alto mare fin presso Perge, la capitale della provincia. Non sappiamo se i tre missionari abbiano navigato sin qui, oppure, sbarcati ad Attalia, percorsero a piedi i quindici chilometri che li separavano da Perge. Giunti in qualsiasi modo alla capitale, avvenne il distacco di Marco dai due apostoli. Il testo degli Atti (13,13) si limita a rilevare ch’egli si separò da loro per ritornare a Gerusalemme.
La crisi di Marco
Riesce difficile conoscere per quale motivo il giovane aiutante dei due non abbia voluto più proseguire. Le ipotesi sono state le più disparate. Già san Giovanni Crisostomo (344-407) aveva supposto che Marco provasse nostalgia di rivedere sua madre; secondo altri ricevette notizie spiacevoli circa la sua famiglia. Non è escluso ch’egli abbia avuto paura dell’itinerario che si presentava innanzi. Dovevano infatti oltrepassare le impervie e innevate catene montuose dell’Antitauro e del Tauro, tra stretti sentieri sospesi su valli profonde, in un paesaggio selvatico, con frequenti caverne in cui si annidavano i briganti dell’Isauria e della Pisidia, ben noti per le loro rapine e la loro ferocia. Per il distacco di Marco, tuttavia, è stata avanzata di recente anche un’ulteriore ipotesi. Marco si era reso conto che il programma del viaggio apostolico si stava modificando di fondo una volta che capo missione era diventato Paolo al posto del cugino Barnaba e gli obiettivi andavano ben oltre l’isola di Cipro.
L’abbandono di Marco fu considerato da Paolo un tradimento. E se lo legò al dito per parecchi anni. Mentre Marco si reimbarcava ad Attalia per far vela forse verso Cesarea marittima, il porto non lontano da Gerusalemme, Paolo e Barnaba ripresero il loro cammino verso Antiochia di Pisidia.
Marco a Gerusalemme e ad Antiochia
Di Marco ritornato a Gerusalemme poco si sa. Si suppone che si sia recato a Roma, dove c’era l’apostolo Pietro al quale si sentiva legato da motivi d’affetto, oppure sia rimasto a Gerusalemme. Qui nel 49, in occasione del Concilio apostolico (At 15,1-29), si trovava anche Pietro.
Ed erano giunti nella santa città anche Paolo e Barnaba per giustificare il metodo nuovo del loro apostolato verso i pagani divenuti cristiani senza dover passare attraverso le norme imposte dalla tradizione giudaica.
Approvato il loro sistema missionario, Paolo e Barnaba ritornarono ad Antiochia, la loro base operativa (At 15,35). Qualche tempo dopo, scrivono gli Atti (15,36), Paolo propose a Barnaba di riprendere il viaggio per visitare le comunità cristiane da loro precedentemente organizzate. Ad Antiochia casualmente si trovava anche Marco, giunto forse con l’apostolo Pietro. Barnaba, tanto legato al suo caro cugino, propose a Paolo di riprenderlo assieme quale aiutante (At 15,37). A questo punto Paolo fu irremovibile nel diniego precisando, come scrivono gli Atti (15,38), che non voleva assolutamente condurre più con sé uno che in Panfilia si era separato, rifiutando di aiutarli. Di recente alcuni studiosi hanno pure ipotizzato che Paolo intendesse aver mano libera nel suo apostolato senza agganci con i metodi di Pietro, con il quale aveva discusso in modo animato, lì ad Antiochia in quei mesi. Ai suoi occhi Marco poteva sembrare la longa manus di Pietro e della stessa comunità di Gerusalemme, scelto da Barnaba per vigilare se lui applicasse fedelmente le decisioni del Concilio apostolico.
Barnaba non era d’accordo con l’amico Paolo. Ma costui, lasciatosi prendere la mano dal suo fiero temperamento, si arroccò irremovibile nelle sue decisioni. Anche Barnaba puntò i piedi per difendere Marco al punto che arrivò a rompere la lunga amicizia con Paolo.
Ancora a Cipro
Mentre Paolo prese con sé Sila per avviarsi verso le comunità cristiane dell’Asia Minore, Barnaba si imbarcò verso Cipro assieme a Marco per una seconda evangelizzazione dell’isola (At 15,39-40). Notizie specifiche al proposito sono piuttosto tarde e appartengono agli apocrifi Atti di Barnaba, attribuiti a Marco stesso, ma in realtà redatti tra il 485-488, per giustificare l’autocefalia o autonomia della Chiesa di Cipro rispetto alle principali sedi patriarcali. Barnaba sarebbe morto nel 60 a Cipro, dove aveva diffuso il vangelo di Matteo. I menzionati Atti di Barnaba narrano le vicende cipriote di Marco e Barnaba con vivacità di particolari, con tocchi romanzeschi, con fantasiosi procedimenti, in una costante opposizione contro i due missionari da parte di Bar-Jesus, colui che Paolo aveva smascherato nel 46 e che appare e scompare come un fantasma per ostacolare l’apostolato di Barnaba. Il viaggio e lo sbarco a Cipro sono narrati con una ricchezza di particolari avventurosi, ben diversa dalla sobrietà storica della prima missione descritta dagli Atti degli apostoli. In un primo tempo i due, imbarcatisi a Laodicea di Siria, a nord di Antiochia, furono spinti dalla furia dei venti nel porto di Corasion sulla costa meridionale dell’Asia Minore. Ripreso il mare, un’altra bufera li buttò sull’isola Pitiusa nell’ Isauria meridionale da dove poi, giunsero ad Anemurion sulla costa della Cilicia. Partiti da qui, fu loro possibile sbarcare a Cipro prendendo terra presso la città di Crommiachiti, dove guarirono i due sacerdoti cristiani Timone e Aristone. I due missionari, ripreso il cammino, puntarono sulla vicina Lapithos. Ma fu loro impedito di entrare in città, poiché si stava svolgendo uno spettacolo di culto idolatrico. Attraversata una catena di monti, essi giunsero al centro dell’isola, a Lampadistos, dove consacrarono Eraclide vescovo dell’intera isola. La loro meta, tuttavia, era Paleopafo, in cui Barnaba e Marco avevano assistito al ricordato episodio di Elimas Bar-Jesus, reso cieco da Paolo. E Bar-Jesus si presentò alle porte della città intimando loro di proseguire oltre. I due si avviarono verso Curion sulla litoranea presso il mare. Anche qui Bar-Jesus si parò innanzi a loro proibendo l’ingresso. Tuttavia, mentre essi si avvicinavano alla città, sul monte vicino si stava svolgendo un lurido spettacolo di donne e uomini. Barnaba maledisse quel luogo, onde il monte crollò, ponendo in fuga i superstiti. I due apostoli sospinti dallo zelo si diressero quindi alla vicina Amatunte. Poco prima, a metà strada, incontrarono per caso in un villaggio il vescovo Aristochieno, una vecchia amicizia, eletto da Barnaba e Paolo nel primo viaggio del 46. Egli li accolse nella caverna dove abitava. Di qui il cammino per Amatunte fu rapido. Ma Bar-Jesus, apparso all’improvviso, impedì ancora una volta l’ingresso. E fu bene. Sul monte vicino una gran folla di uomini e donne stava compiendo in atteggiamento di totale assenza di pudore un sacrificio alla dea Afrodite, la patrona dell’isola. Ad accoglierli e a ristorarli a casa sua si offerse una vecchia vedova, immune da siffatti turpi riti. I due, rianimatisi alquanto, si diressero verso la vicina Kitium, senza potervi entrare poiché nello stadio cittadino si davano i consueti spettacoli immondi. A questo punto Barnaba e Marco, per giungere a Salamina, presero il mare. Ma neanche al celebre porto fu possibile l’approdo, onde i due furono costretti a gettare gli ormeggi presso le isole Cleidi, in cui trovarono ancora sporche feste e più sporchi riti idolatrici. L’unico conforto fu dato dall’incontro con l’amico vescovo Eraclide. E finalmente, ripresa la navigazione, sbarcarono a Salamina, dove in una delle tante sinagoghe Barnaba catechizzò nella fede cristiana molti ebrei. Anche qui, tuttavia, apparve Bar-Jesus. Anzi sobillò contro Barnaba gli altri ebrei, che lo catturarono, gli gettarono una corda al collo e lo trascinarono dalla sinagoga sino all’ippodromo, dove lo bruciarono vivo. Raccolte le sue ceneri, i nemici attendevano il mattino per disperderle in mare. Nel cuore della notte invece Marco, con l’aiuto di due cristiani del luogo, riuscì a nasconderle in una grotta per dare loro degna sepoltura assieme al vangelo di san Matteo. Appena gli ebrei si accorsero della scomparsa dei resti di Barnaba si dettero all’inseguimento di Marco e dei suoi amici, che si sottrassero alla cattura nascondendosi per tre giorni in una grotta presso Ledro. Quando cessò ogni pericolo i tre scesero verso il porto di Limnis.
Testimonianze più sicure
Tralasciando siffatti racconti tardi e fantasiosi, possediamo su Barnaba una sicura testimonianza di Paolo, che lo ricorda nella prima lettera ai Corinzi (9,6), del 53. L’altra menzione di Barnaba si trova nella lettera ai Colossesi (4,10), benché le più recenti posizioni critiche ritengano questa lettera non autografa di Paolo, ma composta dalla scuola paolina, quando l’apostolo era ormai defunto da tempo.
Paolo fa memoria pure di Marco nella lettera a Filemone, in quella ai Colossesi e nella seconda lettera a Timoteo. Senza dubbio alcuno, gli esegeti paolini, anche i più severi, accolgono come autografa solo quella scritta, nel 54, da Efeso a Filemone, un ricco cristiano di Colossi.
Alla fine, nei saluti dell’apostolo all’amico aggiunge anche quelli di altri, cioè Epafra suo compagno di prigionia, e di quattro collaboratori, di cui il primo è Marco e l’ultimo è Luca l’evangelista (Fm 23). Per spiegare la presenza di Marco a Efeso in quest’anno 54, è lecito ipotizzare, collegandosi in questo modo al testo degli Atti, che, quando dopo lo scontro di Antiochia, Barnaba e Marco si recarono a Cipro, di loro due almeno Marco abbia raggiunto l’apostolo a Efeso, non molto distante.
Nei saluti finali nella lettera ai Colossesi, Paolo consiglia i suoi destinatari di accogliere bene Marco, cugino di Barnaba, qualora si rechi presso di loro; su di lui l’apostolo aveva inviato previe istruzioni. Ma se questa lettera va spostata verso l’anno 100 e non è autografa di Paolo, come ritengono in buona parte gli esegeti odierni, la testimonianza storica perde ogni valore. Parimenti nella seconda lettera di Paolo al prediletto discepolo Timoteo, vescovo di Efeso, scritta e spedita nel 67, invitandolo a recarsi a Roma gli raccomanda di prendere con sé anche Marco perché è prezioso per il ministero (2Tim 4,11). Ma anche la seconda lettera a Timoteo, non diversamente dalla prima, ora con sufficiente certezza è ritenuta non autografa di Paolo, bensì redatta parecchi decenni dopo la sua morte.
Marco a Roma
Eppure anche il ricordato testo della prima lettera di Pietro, che sarebbe stata scritta da Roma e nella quale tra i destinatari da salutare vi è pure il nome di Marco, va ridimensionato, poiché questa lettera sarebbe stata scritta non a Roma, bensì nell’Asia Minore verso il 100. Comunque Marco, giunto a Roma o nel 42 o dopo il 50, quale aiutante di Pietro svolse la sua attività tra gli ebrei, che erano circa quarantacinquemila. E si rivolse anche ai Romani pagani e per di più alle classi militari.
In pratica Marco si sarebbe comportato come un interprete tra Pietro, che non parlava il greco o lo adoperava male, e il suo uditorio, per il quale il greco era una lingua internazionale.
Soltanto Clemente Alessandrino, attorno al 200, precisa che Marco compose il suo vangelo a Roma. Per gli altri antichi scrittori ecclesiastici – dall’enigmatico Presbitero (Giovanni?) del I secolo a Papia di Gerapoli, del 120 circa, a san Giustino martire, del 150 circa, a sant’Ireneo di Lione, del 180 circa – Marco mise in iscritto la predicazione dell’apostolo Pietro, pur senza indicare in quale luogo questo sia avvenuto. Il dato di Clemente Alessandrino ci è giunto nel testo dell’Historia ecclesiastica (II, 15,1-2; VI, 14,5-7) di Eusebio di Cesarea, il padre della storia della Chiesa antica, che scrisse tra il III e IV secolo, e da un frammento dello stesso Clemente nelle sue Hypotyposis ad I Petri(5,14). Clemente afferma che Pietro aveva predicato il messaggio della salvezza ai cavalieri di Cesare (equitibus caesarianis). Codesti, al fine di ricordare quanto l’apostolo aveva proclamato a viva voce, indussero Marco a redigere il vangelo. Chi fossero i cavalieri di Cesare non apparve mai chiaro. Di recente, Marta Sordi ha avanzato un’intelligente ipotesi, proponendo una integrazione del testo di Clemente al seguente modo: equitibus [et] caesarianis. Il testo acquisterebbe peculiare chiarezza, onde Marco sarebbe stato spinto alla sua impresa dalla classe sociale romana dei cavalieri e dal gruppo militare dei cesariani. I primi si dedicavano a diverse attività sociali, mentre i secondi erano un corpo di polizia speciale addetto alla sicurezza dell’imperatore.
Ad Aquileia
La seconda parte della vita di Marco comprende l’apostolato ad Aquileia, la principale città della Venetia et Histria, e in Egitto ad Alessandria. Mentre l’apostolato in terra africana si fonda sull’ineccepibile testimonianza di Eusebio di Cesarea, la missione aquileiese, invece, si basa su dati puramente tradizionali riconducibili al vasto settore delle leggende agiografiche. La fase aquileiese va collocata prima di quella alessandrina. Le tradizioni orali, via via elaborate nel corso dei secoli, sono alla fine confluite nell’organica rielaborazione fatta dal doge Andrea Dandolo nell’ampia Chronica, redatta in Venezia attorno al 1350.
Per il Dandolo, Marco è discepolo di Pietro in Roma, dove ha composto il suo vangelo su richiesta dei cristiani del luogo affinché la predicazione dell’apostolo non andasse smarrita per sempre. Pietro, quando lo seppe, si rallegrò e ordinò che il testo evangelico fosse consegnato alle diverse chiese. Anzi egli invitò Marco a recarsi ad Aquileia per predicare la parola del Signore, cosa che il discepolo compì volentieri recando con sé il testo del suo sacro libro.
L’arrivo di Marco ad Aquileia sarebbe avvenuto per via marittima con lo sbarco a Mursiana, un sobborgo della laguna di Grado, proseguendo poi a piedi sino alla vicina Aquileia. Qui Marco convertì il lebbroso Ataulfio e suo padre Ulfio, capo della città, nonché l’intera famiglia, e in un secondo momento innumerevoli pagani, persuasi sia dalla vivace predicazione di Marco sia da innumerevoli miracoli che l’accompagnavano. I cristiani neoconvertiti chiesero poi a Marco che ricopiasse per essi il testo del vangelo. Egli accondiscese alla domanda consegnandolo loro perché lo osservassero con fedeltà. A questo punto Marco, ritenendo che la sua missione fosse già compiuta, progettò di ritornare di nascosto a Roma presso san Pietro. Ma gli aquileiesi, che seppero di questa sua intenzione per ispirazione divina, gli chiesero a gran voce che fosse dato loro un suo successore.
Ermagora
Marco acconsentì alla richiesta invitandoli a presentargli un nome. E fu quello di Ermagora, un prestigioso aquileiese, che godeva la stima di tutti, grazie a una esemplare vita cristiana. Marco allora, assieme ad Ermagora, intraprese il viaggio verso Roma lungo i canali lagunari che collegavano Aquileia con Ravenna. La navicella che recava i due santi doveva attraversare gli intricati meandri dell’odierna laguna di Venezia, città allora inesistente. Appena essa giunse al piccolo porto di Rivalto, cioè il territorio di San Marco dei tempi del Dandolo, scoppiò una bufera di vento che costrinse i naviganti a un approdo di fortuna presso un isolotto. E qui Marco cadde in estasi e gli apparve un angelo comunicandogli il messaggio divino, aperto dal saluto: «Pace a te Marco. Qui riposerà il tuo corpo». L’angelo poi profetizzò a Marco le ulteriori fatiche apostoliche sino al martirio per Cristo, sino alla costruzione in queste lagune di una meravigliosa città, dove sarebbe riposato il suo corpo. Finita l’estasi, Marco ripartì e giunse a Roma rincuorato dall’angelica profezia.
Qui presentò a Pietro sia il resoconto della sua attività missionaria, sia Ermagora perché lo consacrasse vescovo suo successore in Aquileia.
Pietro accondiscese volentieri alla richiesta del discepolo, onde, ordinato Ermagora vescovo, gli consegnò il pastorale come segno esterno del potere e lo rimandò ad Aquileia. Correva allora l’anno 50. Ermagora ritornò ad Aquileia aprendo la serie dei vescovi successori suoi e di san Marco. Marco invece, preso con sé il vangelo, si recò in Egitto ad Alessandria, dove per primo annunziò Cristo e organizzò la relativa comunità ecclesiastica sino alla morte nell’anno 62.
A questo punto se è leggendaria la narrazione del Dandolo e dei predecessori sull’arrivo di Marco e sull’apostolato in Aquileia tra il 48 e il 50, gode invece una discreta certezza storica Ermagora quale primo vescovo della città, ma senza aggancio alcuno con Marco e Pietro. Ermagora sarebbe infatti vissuto poco dopo il 250 o forse martire nella fase delle persecuzioni per editto degli imperatori illirici da Decio (249) sino a Diocleziano (304). Il collegamento Ermagora-Marco fu determinato dalla locale tradizione aquileiese al fine di evidenziare anche per Aquileia un’origine apostolica della gerarchia episcopale. Nell’ambito dell’attività aquileiese, secondo tradizioni tardomedievali, Marco si sarebbe spinto quale missionario sino ai confini dell’impero romano sul Danubio, predicando a Lauriacum presso l’odierna Enns nell’Austria superiore. Invece nel contesto dell’apostolato in Italia, tradizioni del X secolo facevano di Marco il predicatore assieme a Pietro della Puglia addirittura nell’anno 43, da Taranto, a Brindisi, al Gargano; cosa che se spiega un intenso culto del santo in tale regione, non trova giustificazione sul piano storico.
In Egitto: ad Alessandria
L’apostolato marciano in Alessandria d’Egitto si fonda sul menzionato testo della Historia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. Questi scrive a proposito: «Dicono che Marco fu inviato per primo in Egitto e che vi predicò il vangelo, che aveva composto e che per primo stabilì parrocchie nella stessa Alessandria». Il termine «parrocchie» non corrisponde esattamente al significato odierno, fluttuando tra il valore di diocesi in senso largo e di chiesa in senso stretto.
Eusebio non scrive da chi Marco sia stato inviato né in quale anno. Gli storici e gli agiografi posteriori hanno ampliato queste scarne notizie, ricostruendo sulla base di reminiscenze bibliche, in special modo dai vangeli, una compiuta vita del santo dalla nascita sino al martirio. Possediamo a riguardo due linee di fondo: quella egiziana, propria della Chiesa copta di Alessandria, che sviluppa una biografia di san Marco in senso rigidamente nazionalistico; e quella offerta da Simeone Logoteta, di Costantinopoli (X secolo).
Le fonti copte
Per Anba Severo, Marco, collaboratore del cugino Barnaba, evangelizzò con lui l’isola di Cipro. Morto costui, ritorna presso l’apostolo Pietro per aiutarlo. Muore anche Pietro, finisce la vita anche Paolo. Marco resta triste in questo mondo. Egli sa che l’avito Egitto non è ancora cristiano. Per di più gli egiziani sono duri di cuore, onde si sente incapace di predicarvi il vangelo. Mentre riflette su considerazioni del genere, all’improvviso gli appare Gesù con l’invito di partire per l’Egitto; anzi gli darà il potere su tutto l’Egitto, sulla Nubia (parte dell’attuale Sudan settentrionale), la Libia, la Pentapoli, la provincia d’Africa, sull’occidente di codesta terra, sulle due isole di Cipro, di Creta. Si rechi subito a Gerusalemme per ricevere la benedizione dalla madre Maria, prossima alla morte. Il santo, obbediente all’invito del Signore, ritornato a Gerusalemme, incontra sua madre. Ella lo invita ad iniziare la predicazione africana ad Abouniah, poiché qui era vissuto Jacob, suo zio paterno; di qui doveva recarsi ad Alessandria e in altre località.
Marco si avvia a un porto della Palestina, alla ricerca di una nave per il tragitto verso l’Africa. Non la trova. Invece gli appare la Vergine Maria, che lo bacia ed ella pure lo invia in Egitto, assieme all’arcangelo Michele. Alla fine l’evangelista riesce a contattare una nave mercantile in rotta per Alessandria. Marco ordina al capitano di condurlo sino a Ifrikiah, corrispondente all’Africa settentrionale nella lingua araba, o per altri studiosi alla città di Cartagine o per altri ancora all’odierna località di Cirene sull’altopiano cirenaico. Il capitano della nave, essendo diretto ad Alessandria, era deciso in cuor suo di sbarcare Marco in questo porto. Appena la nave prese il largo, scoppiò una paurosa tempesta, tale da minacciare un naufragio. Marco invita la tempesta a calmarsi. In seguito all’improvvisa bonaccia, i compagni rimangono colpiti dal prodigio, onde a Marco non riesce difficile convertirli. La nave nel frattempo non è giunta ad Alessandria, poiché la bufera l’ha sospinta sino al porto di Ifrikiah, cioè a Cirene.
A Cirene
In questo modo si stava adempiendo la volontà di Marco. Appena sbarcato, egli si muove verso la città e incomincia a predicare. Imbattutosi in una paralitica, la guarisce con il segno della croce. Poi passa accanto a un indemoniato, che si divorava mani e piedi e lo risana.
A Cirene vive un tale Alino, la principale autorità della città, malato di lebbra all’ultimo stadio. Gli amici lo avvertono della presenza di un uomo, che opera prodigi nel nome di Gesù, il Figlio di Dio. Alino fa sapere che, se sarà guarito, gli consegnerà metà dei suoi beni. E si reca presso Marco. Nel contempo il giovane figlio di una vedova è portato al sepolcro fra il pianto di tutti. Marco lo prende per mano, lo risuscita e lo consegna alla madre. Il prodigio convince e converte Alino, che crede in Gesù, ed è guarito e battezzato. Sul suo esempio tutti gli abitanti aderiscono alla nuova fede: tant’è vero che Marco li conduce sulla riva del mare a ricevere il battesimo. Erano cinquemila.
Ad Alessandria: Aniano
Dopo altri episodi, Marco poteva riprendere il suo viaggio. Salito sulla nave, fece vela rapidamente verso Alessandria.
Essa contava, circa un secolo prima, un milione di abitanti, ed era antagonista di Roma stessa. Alla porta occidentale della città avvenne l’incontro con Aniano. Marco, appena sbarcato, dopo un probabile tratto di strada a piedi, entrò in città dalla porta detta «della Luna».
Oltrepassata la porta, all’improvviso si ruppe la cinghia di un sandalo di Marco.
Severo, il biografo copto, ci presenta, in questo frangente, il santo scorato e incerto sul futuro, presago di un esito infausto della sua missione.
A consolarlo, gli apparve l’arcangelo Michele, che gli rivolge una non breve esortazione, e lo invita a seguirlo. Gli avrebbe indicato il vescovo suo successore, giacché il Signore stesso l’aveva scelto a tale scopo. Marco, alzatosi in piedi e ripreso il cammino, si recò presso un calzolaio di nome Aniano consegnandogli il sandalo rotto.
Nella civiltà ellenistica era abbastanza usuale che un ciabattino abitasse presso le porte della città per riordinare le calzature dei viandanti. Aniano stava riparando il sandalo. All’improvviso con la lesina si ferì alla mano sinistra. Fu spontaneo il suo grido: «Unico Dio». L’evangelista, udite le parole, sorridendo ripeteva tra sé e sé: «Il Signore ha reso favorevole il mio cammino». E subito con la sua saliva, spruzzata sulla polvere della strada (gesto comune nella pratica medica popolare antica), formò un po’ di fango. Mentre lo poneva sulla mano ferita del calzolaio recitò la formula: «Nel nome di Gesù Cristo vivente nei secoli sii risanato». La ferita guarì sull’istante.
Il calzolaio, da buon egiziano superstizioso, ammirate la potenza e l’efficacia della preghiera di Marco, sbottò nel grido: «O uomo di Dio, oggi stesso vieni a casa mia per prendere cibo assieme a me, poiché mi hai dimostrato la tua misericordia». Marco, rallegratosi della proposta, gli rispose: «Il Signore ti darà il pane della vita celeste».
Il calzolaio condusse a casa sua il santo apostolo. Appena Marco mise piede sulla soglia esclamò: «La benedizione del Signore scenda su questo luogo. Preghiamo Dio, fratelli». Dopo la preghiera si misero a tavola. Nell’ovvia familiarità della conversazione il calzolaio chiese all’evangelista: «Padre, ti prego, chi sei? E da dove la tua preghiera ha ricevuto tanta potenza?». Marco gli si rivelò. «Io sono – disse – un servo del Signore Gesù Cristo, figlio di Dio». Il calzolaio di rimando gli rispose: «Ma io vorrei vedere Dio!». Marco gli disse: «Te lo mostrerò». E incominciò ad esporgli l’inizio del vangelo di Matteo come il più valido sul piano catechistico per dimostrargli che Gesù è «figlio di David, figlio di Abramo» (Mt 1,1), e quanto i profeti avevano predetto su di lui. Di fronte al calzolaio confuso, Marco diede inizio alla catechesi sul Cristo spiegando come la saggezza di questo mondo è stoltezza presso Dio. Il calzolaio con la sua famiglia credette subito in Gesù Cristo. Ci fu ben di più. Una grande moltitudine di abitanti di quella località fu illuminata nella fede da Marco stesso.
Lo storico Simone Logoteta non racconta che l’evangelista rimase ad Alessandria circa cinque anni per convertire alla fede una moltitudine innumerevole. Egli si affretta a narrare le trame dei capi religiosi di Alessandria, appena questi si accorsero del sorprendente numero di credenti in Cristo, per colpa di un certo galileo giunto fra loro, il quale rovesciava i sacrifici agli dei e ne ostacolava il culto. Per tali motivi cercavano di catturarlo e di ucciderlo. Lo scrittore Severo, a questo proposito, scende in particolari di trame oscure, suscitate dal diavolo travestito da cheikh, cioè capo religioso. Scomparso il demonio, i capi pagani tennero consiglio e insieme concordarono di eliminare Marco. Egli, conosciuti i loro progetti per rivelazione divina, ordinò ai discepoli di innalzare una grande chiesa in onore dell’Immacolata Vergine Maria. Marco a sua volta, al fine di assicurare la vita cristiana in Alessandria, costituì la consueta gerarchia, ordinando patriarca Aniano, presbiteri i suoi figli e undici diaconi.
Ormai Marco poteva sfuggire alle insidie dei nemici. Uscito di nascosto da Alessandria, ritornò a Cirene. Qui Marco si fermò ancora alcuni anni per rafforzare nella fede i cristiani convertiti in precedenza e costituire una regolare gerarchia ecclesiastica mediante l’ordinazione di vescovi e di «clerici», cioè sacerdoti, diaconi e forse ministri di ordine inferiore. Terminata questa fase di consolidamento nella fede, desideroso di rivedere i suoi fedeli, l’evangelista decise di ritornare ad Alessandria.
Nella grande città l’apostolo si rese conto che i cristiani erano aumentati di molto e cresciuti in conoscenza e amore di Dio. Essi avevano già eretto una chiesa per la loro attività di culto nella località di Boucoli (dal greco bosko: pascolare), costruita presso il mare, al di fuori della cinta orientale della città, dove si susseguivano le verdi praterie per il bestiame.
Trascorse molto tempo, scrive Simeone Logoteta. Ormai i cristiani, in continuo sviluppo, si impegnavano nell’azione di proselitismo per la conversione dei pagani locali. Per tutta risposta questi ultimi, alla notizia che Marco era arrivato in città per riprendere la predicazione del vangelo, incominciarono ad ardere di invidia, poiché udivano le meraviglie che egli compiva guarendo i malati. Per questi motivi i suoi avversari lo cercavano dovunque. Non potendolo catturare, si mordevano le labbra dalla rabbia; anzi, durante i loro sacrifici agli idoli, gridando ad alta voce contro di lui, andavano dicendo: «Molte sono le prepotenze di questo mago!».
La morte
L’occasione per disfarsi dell’evangelista non tardò a presentarsi. Avvenne la festa di Pasqua, il 24 del mese di aprile, o di farmuzi, come lo chiamavano gli egiziani, o più propriamente, secondo il calendario copto, nel mese di barmoudéh. Nel medesimo giorno si celebravano anche i riti in ricordo della nascita del dio Serapide, il patrono principale di Alessandria. Gli avversari di Marco, profittando delle cerimonie pasquali presiedute dal santo, gli inviarono alcuni armati, che lo sorpresero mentre celebrava il sacrificio eucaristico. Lo arrestarono. Gettatagli una fune attorno al collo, incominciarono a tirarlo fuori dalla chiesa e per le vie della città al grido: «trasciniamo questo bufalo allo stazzo dei bufali», nell’evidente gioco etimologico tra Boucoli, dove sorgeva la prima chiesa cristiana, e bufalo. Marco, mentre veniva portato via, pregava il Salvatore, mentre le sue carni cadevano a pezzi e le pietre delle strade restavano macchiate di sangue. Sul far della sera, il santo fu gettato in carcere, in attesa delle decisioni dei suoi nemici su quale morte dargli. In quei momenti, nell’oscurità della prigione il santo si vide assalito da una folla di spiriti malvagi, che lo deridevano. Marco senza guardarli, ordinò loro di precipitarsi nell’abisso. E la terra si aprì inghiottendo quei demoni impuri. Da quel giorno, essi non sono più apparsi nei templi pagani e neppure nei santuari consacrati agli idoli, onde lentamente crollarono in rovina. A mezzanotte si verificò un violento terremoto. L’angelo del Signore discese dal cielo e confortò il santo con l’assicurazione che le sue reliquie mai sarebbero perite.
Appena Marco contemplò questa visione, alzate le mani al cielo, rese grazie al Signore Gesû. In questo momento Gesù gli apparve. E gli disse: «Pace a te, o Marco, evangelista mio». E Marco di rimando: «E pace a te, Signore Gesù Cristo». Si fece giorno. Subito una moltitudine di persone si recò sul luogo della prigione. Al santo, spinto fuori dall’oscuro carcere, subito fu buttata di nuovo la fune attorno al collo. E mentre lo strattonavano per le strade e piazze di Alessandria, risuonavano le grida ormai solite: «Trasciniamo il bufalo allo stazzo dei bufali».
Marco invece continuava a ringraziare il Signore e a dirgli: «Nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito». E spirò. La moltitudine dei persecutori, nel desiderio che scomparisse ogni traccia del santo, acceso un gran fuoco, stava bruciando i suoi resti mortali. A questo punto il Signore intervenne in modo provvidenziale. Di fatto, scoppiarono un vento impetuoso e una bufera violenta. Il sole incominciò ad eclissarsi. Rimbombavano i tuoni. Poi scese una pioggia torrenziale mista a grossa grandine, che continuò sino al tramonto. In pratica, molti edifici di Alessandria crollarono in macerie e non pochi abitanti caddero morti. Solo allora i carnefici del santo abbandonarono in tutta fretta il corpo di Marco dandosi alla fuga. Quando il cielo si rasserenò, uomini pietosi si recarono in quel luogo per separare i resti di Marco dalla cenere e recarli dove egli era solito cantare le sue preghiere e salmi, cioè a Boucoli. Più tardi seppellirono i suoi resti in un luogo riservato, cioè in una cella memoriae, nucleo iniziale del più noto martyrion successivo, nella zona orientale dell’edificio.
Due altri episodi, tuttavia, vanno inseriti nella fase alessandrina marciana. Il primo è in relazione alla Vergine Maria, ed è documentato in un testo apocrifo redatto attorno al 550: Marco aveva saputo che per lei si approssimava la morte. Anche lui, come gli altri apostoli, giunse a Betlemme dove ella si trovava. La Madonna chiese loro in quale modo si fossero radunati tutti assieme dalle regioni più lontane del mondo; anche Marco rispose a questa domanda: «Stavo compiendo il rito del terzo giorno nella città di Alessandria e, durante la preghiera, lo Spirito Santo mi rapì e mi condusse qui da voi». L’altro è in rapporto al tuttora discusso problema del luogo in cui Marco avrebbe composto il suo vangelo. San Giovanni Crisostomo afferma che Marco lo avrebbe redatto in Egitto dopo la morte dell’apostolo Pietro.
Il sepolcro di Marco nel martyrion di Boucoli divenne in breve tempo un santuario di fama internazionale, richiamandovi i fedeli dopo la fine delle grandi persecuzioni. Ad Alessandria i nuovi patriarchi ricevevano la consacrazione e l’investitura sulla sua tomba, tenendo fra le mani il capo del santo, avvolto in preziosi drappi. Questo santuario marciano fu risparmiato durante l’invasione persiana dell’Egitto del 620, ma fu in parte incendiato durante l’invasione araba del 644-646. Non fu possibile subito ricostruirlo. Tant’è vero che le reliquie del santo erano state ritirate dalle macerie finché al patriarca di Alessandria, Giovanni di Samanoud (681-689), fu concesso di ricostruire l’antico edificio, completato dal successore Isacco (689-692) che vi riportò i resti dell’evangelista. E chi lo avesse invocato vicino al suo sepolcro sarebbe stato protetto da ogni calamità, come scriveva Procopio diacono nell’815.
La traslazione del corpo a Venezia
Al santuario di Alessandria giunsero attorno all’828 un gruppo di mercanti veneziani, con l’intento di trasportare con qualsiasi mezzo le reliquie dell’evangelista nella nascente Venezia.
Tra loro si distinguevano Buono da Malamocco e Rustico da Torcello. Essi seppero dal monaco
Staurazio e dal prete Teodoro, custodi del santuario, che questo correva il rischio di venir distrutto, in base al decreto del governatore arabo di Alessandria, deciso ad impiegare marmi e colonne delle chiese cristiane per erigere un palazzo ad Al Fustat, l’antica Babilonia. Per consolarli, i mercanti offrirono loro la possibilità di condurli con sé a Venezia assieme al corpo di Marco affermando, tra l’altro, che l’evangelista prima di predicare in Alessandria aveva soggiornato tra i veneti per recare la fede cristiana.
In più, a Venezia loro patria correva voce che il santo avrebbe avuto un avviso soprannaturale che le sue spoglie, dopo la morte, in essa sarebbero state riposte e venerate. Vinta la resistenza dei due religiosi, dopo aver sostituito il corpo dell’evangelista con quello della vicina martire santa Claudia, le reliquie furono caricate su una nave, nascoste entro ceste di vimini, protette da foglie di cavolo e da carni suine, malviste dalla religione islamica. Al momento della partenza, un profumo intenso si diffuse dal santuario marciano per l’intera città. Tutti gli abitanti di Alessandria corsero subito al sacro luogo per rendersi conto del fatto. Accortisi che il corpo di Marco stava ancora al suo posto, ingannati dalla sostituzione con quello della santa, ritornarono tranquilli alle loro case. I due mercanti veneziani, mentre oltrepassavano la barriera doganale della città, denunciarono la merce con le fatidiche parole: «kanzir, kanzir (maiale)», onde furono lasciati passare dai doganieri, che si turarono il naso per orrore della carne suina. Una scialuppa li accolse insieme ai preziosi resti per imbarcarli sulla nave, che prese il largo verso l’Adriatico, verso Venezia, in compagnia di Staurazio e Teodoro. Dopo aver superato, grazie allo stratagemma della carne di maiale, anche un’ispezione di una nave araba, dopo aver toccato alcuni approdi di fortuna sulla costa calabra dello Jonio, entrarono in Adriatico. Poco prima, all’altezza dello stretto passaggio nelle isole Strofadi a sud dell’odierna Corfù, a causa del sonno piombato sui naviganti, la nave spinta in maniera impetuosa dalla corrente e dal vento, minacciava di fracassarsi sugli scogli. Fortunatamente il santo apparso all’improvviso, svegliò i marinai invitandoli ad avanzare lentamente, così che fu evitato il naufragio.
Il viaggio riprese verso Venezia. I naviganti timorosi di incorrere in sanzioni penali, avendo infranto l’embargo dichiarato dai veneziani per ogni commercio con gli arabi, calarono l’ancora presso Umago in Istria. Di qui inviarono in avanscoperta nella capitale lagunare una missione per avvisare cosa recavano con sé. Ottenuto il permesso d’ingresso, i due mercanti sbarcarono il sacro pegno, nel porto di Olivolo, accolti dal vescovo locale, e dal doge Giustiniano Particiaco. Era il 31 gennaio dell’828. Le reliquie furono collocate in primo tempo presso un angolo del palazzo ducale, finché fosse completata la nuova basilica in loro onore. E così Marco che era stato il patrono di Alessandria, ora lo diventava di Venezia.
L’invenzione del 1094
Nel giugno del 1094, mentre ci si dava da fare per ricollocare il sacro corpo nella più sontuosa basilica, iniziata in suo onore nel 1063, non si riusciva più a trovarlo. Tra i pianti e le preghiere della città, dopo giorni di digiuno, il 25 giugno al doge Vitale Falier, al vescovo Domenico Contarini, ai nobili e al popolo riuniti nella basilica, il santo rivelò dove stessero le sue reliquie, sporgendo un braccio da un pilastro, precisato dall’antica tradizione sul lato destro della basilica. La chiesa si riempì di soavissimo profumo.
Una volta trovato il corpo del santo grazie a questo prodigio, appena esso fu esposto al centro della novella basilica ebbero inizio le feste devote. I pellegrini per onorarlo giungevano da Venezia, anzitutto, e dal resto dell’Europa. Ai primi, il santo volle recare il beneficio di alcuni miracoli, descritti con attenzione dall’anonimo autore dell’Inventio, quali la liberazione di una donna posseduta da sette demoni non appena ella si accostò all’arca del santo, e la guarigione di un adolescente da una grave forma cancerosa ormai in metastasi.
L’8 ottobre di quel fausto 1094, il corpo del santo fu collocato entro un sarcofago dal doge Falier nella cripta, ampliata per la circostanza. I fedeli potevano accedervi da due scale laterali e poi, trascinandosi in ginocchio, giunti ai gradini del sepolcro avvicinavano alle sante reliquie o i loro panni o le loro mani a fini protettivi. Né mancarono in quei giorni e in seguito altri miracoli, come la guarigione di una paralitica di Murano e di malati provenienti sia da importanti città della Val Padana, sia da oscuri villaggi.
Il vangelo di san Marco
Secondo i dati della tradizione più comune
Marco compose il suo vangelo in Roma. Per quel che riguarda la data, in base all’antica teoria di sant’Agostino, egli lo avrebbe scritto dopo il vangelo di Matteo, di cui Marco sarebbe stato il sunteggiatore, o «divino abbreviatore» come lo definisce il medesimo santo. Tanto lui, quanto Matteo, quanto Luca, composero i loro testi evangelici prima dell’anno 70, poiché i passaggi, che riportano le parole di Gesù sulla futura distruzione del tempio di Gerusalemme (Mc 13) debbono considerarsi una vera profezia. Se Marco scrisse il vangelo prima del 70, non va tuttavia esclusa qualsiasi precisazione cronologica. Di norma, si accetta il periodo tra il 64 e il 67, basandoci su quanto scrive Ireneo di Lione (135?-203?): «Dopo il suo esodo [di Pietro], Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci trasmise anch’egli per iscritto ciò che era stato predicato da Pietro». Più di qualcuno ipotizza che il nostro evangelista redasse il suo testo in due momenti. Agli inizi degli anni 40 risale la stesura, in cui egli inserì o rielaborò un’anonima narrazione della passione, morte e resurrezione di Gesù (capp. 14-16) composta sulla fine degli anni 30. Al secondo momento, tra il 58-60, si può far risalire il testo definitivo. Se poi si prende in considerazione il frammento 705 delle grotte di Qumrân da identificare con il testo di Mc 6,52-53, da un lato il vangelo sarebbe stato composto con sicurezza prima dell’anno 68, quando le grotte vennero murate, mentre dall’altro il citato frammento marciano sposterebbe la datazione del vangelo poco dopo il 40.
Il vangelo di Marco è il più breve dei quattro, ed è formato di soli sedici capitoli in lingua greca. Marco ha diviso il suo vangelo in due parti. La prima è data dai primi otto capitoli, nei quali riporta le azioni di Gesù, insistendo sui suoi miracoli al fine di dimostrare che Gesù è davvero il Figlio di Dio. Sembra che per tale motivo, sin dall’antichità cristiana, sia stato scelto il leone quale suo simbolo perché come quello con il suo ruggito domina le voci degli altri animali, così Marco proclama forte che Gesù è Figlio di Dio. Nella seconda parte di preferenza sono presentate le parole di Gesù, che spiegano le condizioni necessarie per seguire il Redentore sino alla morte in croce.
Marco, narrando la vita di Gesù, mostra una preferenza per i dati aneddotici, gli aspetti episodici, con uno spiccato gusto verso l’osservazione dei particolari, siano quelli di cieli sereni o vaste campagne, o sperduti villaggi di Galilea, o del mare di Tiberiade sconvolto dalla tempesta di vento, che solleva larghe ondate come in una notte fonda. Il suo stile è rapido, essenziale, nervoso, tipico dell’artista. Alla fine si percepisce in lui la tecnica del catechista provetto, del traduttore dei lunghi discorsi dell’apostolo Pietro intorno alle parole e alle azioni di Gesù: insomma uno che per i suoi ascoltatori, e si suppone fossero i romani piuttosto inclini alla concretezza e alla praticità nelle cose, vuole evidenziare lo stretto necessario.
Nel vangelo marciano predominano alcuni temi, vale a dire: il segreto messianico, cioè Gesù fa conoscere gradualmente la sua realtà di Figlio di Dio; il regno di Dio è sempre vicino e atteso; Gesù figlio di Dio è sofferente sulla terra sino alla fine dei tempi.
